Fu costruito, tra il 1782 e il 1798, dall'architetto siracusano Natale Bonaiuto, nel luogo in cui sorgevano le officine dei ceramisti ai quali venne assegnato in cambio, per la costruzione delle nuove officine, un terreno a S. Orsola.
La necessità di costruire questo nuovo edificio carcerario si presentò in seguito al terremoto dell' 11 gennaio 1693 che distrusse completamente il vecchio castello arabo-normanno, parzialmente adibito a carcere.
Si tratta di un edificio severo a pianta quadrata, di grande mole, molto compatto e tuttavia elegante, perchè alleggerito dall' inserimento dell'ordine gigante ,posto su basamento bugnato, e dalle volute delle finestre che, con il loro chiaroscuro, disegnano e scandiscono il ritmo della facciata. Questa è coronata da un cornicione con, al centro, lo stemma della città.
L' edificio rappresenta un raro esempio di tipologia carceraria settecentesca ed è stato testimone di importanti eventi storici come,ad esempio, i tumulti contro i giacobini a seguito dei quali furono rinchiusi in esso molti nobili calatini.
Rimase destinato a carcere fino al 1890; in seguito,nel 1899,fu adibito a monte di pietà, subendo gravi manomissioni; infine è diventato sede del Museo Civico la cui fondazione ufficiale, nel 1914, si fa risalire all' opera di don Luigi Sturzo.
In ogni città, o quasi, appartenuta al Regno delle due Sicilie, non manca , sopravvissuto ai tempi ed alle guerre, un edificio che dappertutto viene definito “carcere borbonico”. Nessun altro edificio, seppur costruito nello stesso periodo, ed adibito a fini istituzionali, gode di tale aggettivo. Non un museo, una villa, un teatro, un’accademia, un ospedale, una scuola; solo le carceri.
Triste eredità degli effetti della lettera di William Gladstone, dove il leader dei liberali inglesi, reduce nel 1851 di una supposta visita al carcere di Nisida, definisce il sistema carcerario ed in genere giudiziario del Regno, “la negazione di Dio eretta a sistema”, subito ripresa e diffusa da quanti tramavano ai danni del governo borbonico. Viene ignorato il fatto che nel 1852 lo stesso Gladstone si rimangiò molto di quanto aveva scritto e confessò di essere stato anch’egli raggirato. A supporto riportiamo quanto Domenico Razzano scrisse: “Gladstone tornato a Napoli nel 18881889 fu ossequiato e festeggiato dai maggiorenti del così detto Partito Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per le sue famose lettere con la negazione di Dio, che tanto aiutarono la nostra rivoluzione; ma a questo punto Gladstone versò una secchia d’acqua gelata addosso ai suoi glorificatori. Confessò che aveva scritto per incarico di Palmerston, con la buona occasione che egli tornava da Napoli; che egli non era stato in alcun carcere, in nessun ergastolo; che aveva dato per veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri rivoluzionari”. Questa ritrattazione non ebbe, però, alcun effetto di recupero. La lettera e la frase in essa contenuta continua ad essere il leit motiv che descrive la giustizia borbonica fino ai giorni nostri.
In una trasmissione televisiva, infatti, curata dall’ineffabile Angela junior, incentrata (finalmente) sul Regno delle due Sicilie, sui suoi primati civili e culturali, sulla sua supremazia sui mari, arrivando al sistema giustizia il conduttore non riesce a superare i luoghi comuni che per un secolo e mezzo hanno contribuito a trasmettere l’idea di un regno e di un governo occhiuto, poliziesco e oppressivo, dove non aveva luogo il minimo rispetto delle libertà individuali e dove al sistema carcerario era quasi preferibile una condanna all’inferno. L’aggettivo più diffuso che affianca i nomi è “famigerato” (Maniscalco, Filangieri, Ruffo etc.) e Ferdinando II venne definito Re Bomba per aver consentito il bombardamento di alcune baracche a Messina, dove si erano rifugiati delinquenti comuni durante i moti de ’48, mentre Vittorio Emanuele II, dopo aver fatto bombardare fino alla distruzione Sestri Levante e parte di Genova, venne gratificato dell’epiteto di Re Galantuomo.
Ritornando alla trasmissione, il buon Angela si adagia bovinamente sulla più trita retorica risorgimentale, ignorando che sotto i Borbone fu compiuta la prima riforma carceraria che tenne conto dell’umanità del condannato, considerando che i luoghi di detenzione dovevano essere anche luoghi di redenzione, e che comunque si doveva passare dagli incivili e inumani luoghi dove i condannati soffrivano la reclusione nella più bieca ed inumana promiscuità, ammassati in locali senza servizi igienici e dove convivevano molte volte donne, bambini e uomini. Si rese evidente la necessità di assicurare locali adeguati per spazio e cubatura, igienici e dove i condannati separati per sesso e molte volte per tipologia di reato avessero anche assistenza sanitaria, religiosa, e un’attività lavorativa
I “famigerati Borboni” realizzarono un regime penitenziale fra i meno disumani d’Europa, e progettarono, prima d’ogni altro stato europeo, una riforma in tal campo che teneva conto delle esigenze elementari dei carcerati e della necessità di educarli, al fine di permettere loro di iniziare una nuova vita, una volta espiata la pena. Se tale riforma che Tessitore chiama utopia non diede luogo agli effetti desiderati, ciò fu dovuto essenzialmente all’ostruzionismo della burocrazia ed alle continue rivoluzioni che il Regno dovette subire dal 1820 al 1860 e all’arretratezza della mentalità locale.
Essi furono fra i sovrani europei che per primi avviarono una riforma carceraria e si distinsero fra tutti dando prova di maggiore sensibilità rispetto per esempio agli stessi governanti inglesi, i quali si limitavano ad approvare i progetti dei riformatori, guardandosi bene, tuttavia, dal metterli in atto, con la conseguenza che le loro carceri, malgrado una propaganda mirante a tesserne gli elogi, risultavano le più terribili e disumane di tutta l’Europa.
Nel 1817 Ferdinando I di Borbone emetteva un decreto sulle carceri assolutamente all’avanguardia per i tempi. Il provvedimento prevedeva, innanzi tutto, la costituzione di una speciale Commissione per ogni valle, che vigilasse sul regolare funzionamento delle carceri, sulla salubrità e sicurezza dei locali e sulla qualità del cibo somministrato ai prigionieri. Inoltre, conteneva norme relative alla concessione di appalti che provvedessero, all’interno delle carceri, alle più elementari necessità dei detenuti, come la pulizia, la rasatura, il lavaggio della biancheria sporca, il ricovero dei malati in apposite strutture sanitarie. Ogni prigione sarebbe stata, inoltre, fornita di un cappellano, di un medico e di un cerusico. Un successivo decreto del 1822 introduceva per la risoluzione dei procedimenti giacenti, l’istituto della tran-sazione, l’odierno patteggiamento, tra il pubblico ministero e il reo, nel contesto di un procedimento abbreviato.
Il regime borbonico si dimostrò all’avanguardia, nel settore, soprattutto per la progettazione e poi per la costruzione del primo carcere che si rifaceva ai criteri architettonici suggeriti dal Bentham: si trattava del carcere palermitano dell’Ucciardone inaugurato nel 1840.
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